La popolazione mondiale, con il miglioramento della vita e l’avanzamento della medicina e delle tecnologie legate alla salute, sta invecchiando: questo significa che, accompagnata all’aumento della durata della vita media, esiste anche la realtà delle malattie croniche, invalidanti o tipiche dell’età anziana.

Statisticamente, si può rilevare una maggior prevalenza di disturbi psichiatrici via via che aumenta l’età della popolazione: si reputa infatti che nelle persone con più di 80 anni essa possa arrivare al 44% (Gilbert e Rossi, 2009).

Di conseguenza, anche le popolazioni delle RSA sono spesso ampiamente costituite da soggetti che presentano disturbi di tipo psicologico o emotivo, spesso (ma non sempre) anche legato a malattie degenerative come la demenza di Alzheimer.

Il numero di soggetti in RSA con concomitanza tra demenze e disturbi psichiatrici in letteratura è descritto con variabilità estesa, che va dal 20 al 90%, mentre per quanto riguarda il disturbo psichiatrico senza comorbidità sembra esserci una prevalenza nei soggetti dai 65 anni in su del 9,8% (Panigati et al., 2013).


Tra i disturbi psichiatrici che si riscontrano più di frequente nell’anziano abbiamo la depressione, in soprattutto sindromi ansioso-depressive; schizofrenia, deliri e idee deliranti spesso persecutorie e/o allucinazioni, che fanno parte dei “sintomi positivi”, ma anche sintomi negativi che tendono ad aumentare all’avanzare dell’età del soggetto, quali ritiro sociale, affetti appiattiti, apatia (Panigati et al., 2013).

Un altro fenomeno però è spesso legato ai disturbi psichiatrici in età geriatrica: quello dell’aggressività. Il paziente psichiatrico aggressivo si rivela essere una sfida molto importante per il sistema sanitario, e in particolare per i suoi caregiver: le fragilità dell’anziano con sintomi psichiatrici, spesso accompagnate da paura, incertezza e confusione, possono portarlo ad essere agitato, aggressivo o in alcuni casi anche violento con le figure che si occupano di lui.

Il comportamento violento può manifestarsi in tanti modi diversi: in letteratura si possono trovare esempi come urla, insulti, minacce che rientrano in una categoria di aggressività verbale, mentre diventa fisica quando si parla di atti come il cercare di colpire il caregiver, strattonare i vestiti, tirare capelli, lasciare lividi e ferite, calciare, lanciare oggetti. In alcuni studi viene considerata una forma di aggressività anche la resistenza al trattamento, che si concretizza in atti quali rifiutarsi di bere e di mangiare al contempo provocando il caregiver a parole o con gesti (come per esempio agitare il pugno verso il caregiver, oppure sputare le medicine) (Zeller et al., 2009).


Il paziente psichiatrico può divenire aggressivo per una moltitudine di ragioni, come spiegano Zeller e colleghi (2009) nella loro review: una delle cause più comuni è l’invasione dello spazio personale. Si tratta di qualcosa di impossibile da evitare nel momento in cui è necessario prendersi cura della persona: momenti dedicati all’igiene, alla nutrizione, alla vestizione sono attimi in cui il caregiver è a stretto contatto con il paziente.

L’aggressività può inoltre scaturire da un forte stress provato dall’individuo, sia esso dovuto a ragioni che dall’esterno possono essere considerate erroneamente superficiali (chiedere al soggetto di fare qualcosa che non vuole, impedirgli alcune azioni) o ad avvenimenti traumatici come lutti o trasferimenti.

Anche il personale di assistenza gioca un ruolo importante nella comparsa o meno dei comportamenti aggressivi: una mancanza di coordinazione e di comunicazione relativa ai bisogni specifici del paziente, ma anche un atteggiamento sbrigativo e irrispettoso sono spesso fonte di frustrazione nel paziente psichiatrico.

Tuttavia, non sempre si tratta di cose che possono essere tenute facilmente sotto controllo dal caregiver: atti violenti possono insorgere anche quando il paziente vede l’atto di cura come qualcosa di pericoloso, oppure quando sguardi, espressioni e parole vengono fraintesi.


Zeller et al. (2009) catalogano alcune delle strategie con i quali i caregiver imparano a relazionarsi col paziente psichiatrico con comportamento aggressivo: una possibilità è quella di cercare di prevenire il comportamento aggressivo, sia controllando l’umore del paziente prima di compiere qualsiasi azione, sia rispettandone il più possibile gli spazi e l’autonomia; un’altra è quella di cercare di placare il paziente, parlandogli gentilmente e comportandosi in modo calmo per non allertarlo.

 

Per gestire questa tipologia di pazienti, in generale, si possono seguire alcuni suggerimenti.

Uno di essi è, innanzitutto, l’instaurare di una relazione d’aiuto tra il caregiver, che è colui che in questo caso può arrivare ad essere riconosciuto come fonte importante di aiuto e supporto, e il paziente. Il caregiver deve sospendere il proprio giudizio, rispettando l’utente e provando verso di lui una sincera curiosità e interesse che rendano la relazione autentica e centrale nel percorso di cura. Il caregiver deve avere l’accortezza di mantenere una giusta distanza, senza invadere gli spazi del paziente ma anche senza risultare freddo e distaccato: in questo modo è possibile supportarlo al meglio, favorendone anche spazi di autonomia (Menichetti, 2017). L’ascolto attivo ed empatico è fondamentale e alla base della relazione d’aiuto: bisogna far sentire il paziente accolto e accettato, dimostrandosi pronti a ricevere la sua esperienza.

 

Prima di intervenire sul comportamento aggressivo, violento o problematico sarebbe poi opportuno descriverlo: lo si può fare tramite l’analisi funzionale del comportamento problematico, con la quale si osserva e si descrive quel che si vede. È utile, in questo caso, seguire un ABC per definire Antecedenti (eventi immediatamente precedenti al comportamento, che possono averlo innescato); Comportamento (“Behaviour”, ovvero la descrizione precisa di quanto successo) e Conseguenze (Ciò che è successo dopo). A questo punto, è possibile elaborare strategie per la gestione del soggetto, andando per esempio ad intervenire sugli antecedenti o sulle conseguenze, per gestire al meglio il comportamento problematico (Vaccaro, 2020)

 


A questo punto, esistono alcune tecniche utili per gestire paziente psichiatrico, tra cui troviamo rilevante citare:

  • La Token Economy, una tecnica che si prefissa di rinforzare comportamenti positivi e desiderabile tramite rinforzi positivi che prendono la forma di simbolici gettoni (da cui “token”, gettone) e di apprezzamenti e indicazioni da parte del caregiver. Questi rinforzi vengono erogati quando il soggetto mette in atto un comportamento adeguato: in questo modo, è possibile rendere più frequenti questi comportamenti e ridurre quelli negativi o aggressivi. Il tentativo è quello di rendere il paziente sempre più in grado di autoregolarsi, così da ottenere un altro tipo di rinforzo – quello di tipo sociale, ovvero l’approvazione delle altre persone (Kazdin, 2012).

 

  • La Cognitive Remediation Therapy. Si tratta di un trattamento orientato a migliorare abilità neurocognitive come attenzione, memoria di lavoro, flessibilità e capacità di organizzazione, tutte cose che tendono a migliorare il funzionamento sociale del soggetto (Kim, 2015). Si articola in tecniche innovative pensate appositamente per andare ad influenzare il funzionamento cognitivo, anche in presenza di quadri comorbidi, e possono essere attività come allenamenti per la memoria (insegnando strategie mnemoniche per memorizzare parole, dettagli, testi); per il ragionamento (andando a migliorare le abilità di problem solving incoraggiando il riconoscimento logico di pattern in serie di esercizi a base di numeri e lettere, e successivamente l’applicazione di queste abilità nel mondo reale); per la velocità con cui si processano le informazioni (somministrando, per esempio, degli esercizi computerizzati in cui il soggetto deve riconoscere alcuni elementi in mezzo ad altri il più rapidamente possibile). (Vance et al., 2007).

Riuscire ad entrare in una relazione positiva e produttiva con il paziente psichiatrico è importante: sia per garantire il benessere del soggetto in quella che è una fase spesso fragile, incerta e confusa della propria esistenza, sia per il caregiver stesso, per ridurne lo stress, l’affaticamento e la frustrazione e favorire una clima di comprensione e accettazione che sia di beneficio alla relazione di cura.





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