Quando un individuo manifesta i sintomi di un disturbo psichico, è spesso proprio all’interno del contesto familiare che essi si esprimono, andando ad influire su un equilibrio che può diventare improvvisamente instabile e spesso confuso.

L’insorgere della malattia, generalmente, provoca sofferenza e disagio non solo in colui che è affetto dalla malattia stessa, ma anche dei suoi familiari, le persone a lui più vicine e che si prendono cura di lui, creando una situazione nuova e imprevista che molti non hanno le risorse per affrontare o ristabilire.

Si è a lungo dibattuto sull’importanza del contesto familiare per prevenire ricadute nei soggetti con disturbi psichici. A metà del secolo scorso, tutta l’enfasi era principalmente posta sull’utilizzo di trattamenti farmacologici – elemento che, tuttavia, non sembra essere in grado da solo di esser sufficiente nel limitare l’insorgere dei sintomi.

Ecco che la famiglia torna ad essere importante, diventando parte integrante di un intervento che, anche combinato a quello farmacologico, può portare risultati incoraggianti: la psicoeducazione.


La psicoeducazione è una modalità di trattamento erogata da uno specialista che integra in sé interventi di tipo psicologico ed educativo.

Essa riflette un approccio basato sulla competenza, che mette in risalto l’importanza della salute così come della collaborazione, delle strategie di coping e dell’empowerment del destinatario dell’intervento (Dixon, 1999, Marsh, 1992).

Nella psicoeducazione tanto l’individuo con disturbo psichico quanto la sua famiglia sono considerati parte integrante del trattamento, anche grazie all’utilizzo di tecniche che aiutano questi soggetti ad avvicinarsi al mondo della malattia al fine di comprenderlo meglio.

È inoltre uno strumento particolarmente versatile, in grado di essere utilizzato sia con individui che con famiglie o gruppi più estesi (Lukens e McFarlane, 2004).

 

La review di Lukens e McFarlane (2004) sottolinea come interventi di psicoeducazione siano, nell’ambito dei disturbi psichici, documentati in letteratura soprattutto per quanto riguarda il loro utilizzo nei casi di schizofrenia: sono infatti ben descritti trattamenti basati sulla psicoeducazione che hanno portato a miglioramenti nel funzionamento globale, nella qualità della vita, un minor manifestarsi dei sintomi e in generale benefici globali sia per il soggetto che per la sua famiglia.

Tuttavia, l’interesse verso questo trattamento si sta iniziando ad espandere anche verso altre patologie e condizioni: ci sono risultati incoraggianti che arrivano da cicli di psicoeducazione utilizzati nell’ambito dei disturbi dell’umore, della depressione post-partum, di disturbi depressivi o bipolarismo, e anche disturbi del comportamento alimentare.

Non solo: la psicoeducazione si è rivelata utile anche in casi di malattie croniche, gravi o terminali; ed esistono studi che sottolineano nello specifico la sua bontà quando rivolta a familiari di soggetti anziani affetti da demenze (in termini di riduzione di problemi comportamentali) o con disturbi intellettivi (Lukens e McFarlane, 2004).

 

 


Ma perché è così importante (psico)educare anche la famiglia, oltre che al soggetto affetto dalla malattia stessa?

Quando il familiare sente di avere un senso di familiarità verso la malattia, si sente supportato e pensa di aver appreso strategie di coping utili, l’esperienza di caregiving è vista come qualcosa di più positivo (Kuipers et al., 2007; Onwumere et al., 2008).

Al contrario, quando questo non avviene, è più probabile che i familiari provino depressione, stress, ansia, ma anche senso di colpa e vergogna (Alpi et al., 2008)

 

Un elevato carico di cura può portare la famiglia ad avere elevati livelli di Emotività Espressa, che indica un’intensa risposta emotiva alla situazione, ed una difficoltà ad affrontarla con flessibilità.

L’intervento psicoeducativo può aiutare le famiglie a ridare un senso a quello che stanno vivendo, a riprendere le giuste distanze, ad affrontare al meglio la situazione e a non sentirsi soli.


Parliamo di Emotività Espressa per indicare la misurazione di caratteristiche emotive dell’ambiente familiare nel corso di varie patologie, disturbi o problemi (Bertrando, 1997): in altre parole, si tratta del grado in cui la risposta emotiva del familiare sia o meno intensa in risposta alla malattia dell’individuo.

L’emotività espressa può essere alta, quando si tratta di familiari che non tengono propriamente in considerazione i bisogni dell’individuo con disturbo psichico, invadendo i suoi spazi e sostituendosi a lui nutrendo al contempo aspettative alte o addirittura irrealistiche nei suoi confronti; e può essere bassa, quando i familiari sono più in grado di modellarsi intorno alle sue necessità e a nutrire aspettative più realistiche nei suoi confronti (Crescenzo, 2021).

Un’alta Emotività Espressa, con il suo caratteristico ipercoinvolgimento, può essere considerata come fattore di rischio di ricaduta in situazioni di malattia psichica: alcune meta-analisi concludono che in famiglie con alta Emotività Espressa il tasso di ricadute è tra il 50% e il 65%, tasso che si abbassa al 23%-35% in famiglie con bassa Emotività Espressa (Hooley e Hiller, 1998).

È in questo ambito che interventi di psicoeducazione diventano quindi particolarmente importanti: la psicoeducazione può, infatti, aiutare le famiglie a gestire l’aspetto dell’Emotività Espressa, coinvolgendo il nucleo in attività atte sia a comprendere meglio la malattia, i suoi meccanismi, i suoi sintomi e il modo in cui tutto ciò influisce sul soggetto; sia ad insegnare strategie di comunicazione più efficaci, affrontare adeguatamente i problemi quando insorgono e riducendo tensioni e fonti di stress tanto per il familiare che per il soggetto stesso, andando a prevenire le ricadute più gravi (Crescenzo, 2021).


Indubbiamente, è utile coinvolgere la famiglia in programmi di psicoeducazione anche sin dalle primissime fasi di esordio del disturbo, in modo tale proprio da ridurre e prevenire un’eccessiva Emotività Espressa. Un esempio è il Programma 2000 descritto nello studio di Alpi e colleghi (2008), che prevedeva interventi di psicoeducazione familiare tramite diverse fasi con alcuni obiettivi tra cui la creazione di un’alleanza tra operatori e caregiver, il  favorire l’adesione al trattamento, la riduzione dello stress , della paura e dell’Emotività Espressa, lo sviluppo di  strategie di coping e il potenziamento e miglioramento della comunicazione. Per farlo, gli autori elencano alcune delle caratteristiche che un intervento di questo genere dovrebbe avere:

  • Deve essere informativo circa il disturbo e il suo trattamento
  • Deve trasmettere abilità di gestione
  • Deve aiutare a ridurre l’Emotività Espressa
  • Deve rendere il familiare e il soggetto parte attiva del processo terapeutico
  • Deve tenere in considerazione i bisogni specifici, e quindi prevedere interventi individuali.

 

I passi dell’intervento si articolano quindi come segue:

  1. Fasi iniziali di assessment
  2. Psicoeducazione sul disturbo psichico (in cui si trasmette cos’è il disturbo, si spiegano i sintomi, le cause, il possibile decorso, i segnali di ricaduta, i fattori di rischio per le ricadute. informazioni sulle terapie farmacologiche e sul ruolo della famiglia) e farmacologica (in cui viene spiegato cos’è uno psicofarmaco e qual è il suo ruolo, come si assume, qual è la sua efficacia e quali gli effetti collaterali, e come la famiglia può aiutare l’aderenza al trattamento)
  3. Informazioni sulle terapie farmacologiche e sul ruolo della famiglia (in cui viene spiegato cos’è uno psicofarmaco e qual è il suo ruolo, come si assume, qual è la sua efficacia e quali gli effetti collaterali, e come la famiglia può aiutare l’aderenza al trattamento)
  4. Psicoeducazione alla comunicazione ( in cui si affrontano temi quali l’espressione funzionale di sentimenti piacevoli e spiacevoli, per ridurre la tensione e creare un clima solidale e positivo; la comunicazione per convogliare i propri bisogni e le proprie richieste; l’ascolto attivo per far sentire l’interlocutore accolto e ascoltato)
  5. Fasi dedicate al problem solving, in cui vengono insegnate strategie di coping utili a seconda delle diverse situazioni presentate
  6. Un’ultima fase di assessment con revisione di tutto il percorso

Trattamenti come questi si sono dimostrati molto efficaci nel ridurre l’Emotività Espressa.


Una famiglia più informata sulla condizione del soggetto con disturbo psichico, più empowered a livello di nozioni, problem solving e coping, è una famiglia che non si sente più sola, supportata in un momento di più o meno profonda difficoltà: fornirgli gli strumenti per affrontarlo significa creare un ambiente positivo e accettante intorno al soggetto, e gestire in modo adeguato l’esperienza di malattia.





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